3ème Millenarie n. 65 – Traduzione di Luciana Scalabrini,
prima parte
Albert Low è direttore del centro Zen di Montréal; è autore di diverse pubblicazioni apparse anche sulla rivista 3ème millénaire.
Ho
scritto le pagine seguenti in risposta alla lettera di
un membro del Sangha:
si lamentava di avere l’impressione di non andare da nessuna parte con la sua
pratica spirituale.
Ci lamentiamo tutti, un
giorno o l’altro, per questo motivo. Così mi è sembrato che valesse la
pena di rendere disponibile questa risposta a tutti.
Prima di tutto, domandiamoci perché
seguiamo una pratica: aver chiaro questo è essenziale. La risposta ci
permetterà di andare più lontano, domandandoci ciò che possiamo aspettarci, ma
anche quello che dovremo pagare se le nostre attese si realizzano.
Se si è seri, il più delle volte si
risponderà: “non so veramente perché seguo questa
pratica spirituale”. Ma questo “non so” è preceduto da
un più forte bisogno di qualcosa che sembra mancare nella nostra vita, un
profondo senso d’insoddisfazione, o semplicemente un disagio interiore. E’ alla
fine il bisogno che ci spinge verso una via spirituale. Comprendere questa insoddisfazione che diventerà più tardi un lamento,
ci porterà a fare un percorso abbastanza lungo attraverso la comprensione di
sé.
Certamente, questa
comprensione dovrà passare attraverso parole, che saranno per voi concetti e
idee. Non dovete fermarvi ad
una comprensione unicamente intellettuale, ma, al contrario cercare di penetrare
dentro i sentimenti e le sensazioni descritte.
L’impressione del controllo
La maggior parte delle persone vogliono sentire che controllano la loro vita. Così dobbiamo
distinguere tra il bisogno, il sentire
che si controlla e avere davvero il controllo. Quando camminiamo, parliamo,
mangiamo ecc., il bisogno di sentire che controlliamo
le cose, non c’è. Le facciamo, per così dire, inconsciamente, cioè senza la sensazione che “lo sto facendo”. Quando invece
abbiamo una sensazione incerta o di insicurezza,
abbiamo bisogno di sentire che abbiamo il controllo. Ma,
come cercherò di dimostrare, nonostante la sua caratteristica di realtà,
l’impressione di controllo che sento, è illusoria. Si può dire che questa impressione non dipende affatto dall’avere un miglior
controllo. Al contrario, l’impressione d’avere il controllo, che
è illusoria e troppo spesso legata all’immaginazione, porta grossi
problemi, che interferiscono con il “mio” vero controllo.
L’impressione di controllare viene
dall’impressione “io lo faccio” o “io sono colui che
agisce”. Questa impressione comporta due elementi: la sensazione d’essere – o
la sensazione di sé – e “io sono”. La sensazione di sé spesso
è solo una sensazione. Se studiate il
linguaggio del corpo, sarete capace di leggere abbastanza facilmente attraverso
il suo comportamento se una persona è esitante, se ha paura, attraverso
l’osservazione con cui lui o lei intensificherà la sensazione di se stesso o di
se stessa.
Incrociare le braccia, sfregarsi il mento o la fronte, serrare le mascelle o i
pugni, aggrottare la fronte, sono segni
di malessere o di incertezza. Ecco ogni sorta di mezzi
per aumentare la sensazione di sé. Come le sensazioni, le emozioni generano la
sensazione di sé: l’ansia, la paura, la collera, l’impietosirsi di sé. Infine,
la sensazione di sé può essere amplificata dai pensieri, dalle idee, dai sogni,
tutto il flusso che alimenta quello che chiamiamo
monologo interiore. La sensazione di sé, composta da
sensazioni, emozioni e dal monologo interiore, è complessa e radicata molto
profondamente in noi.
L’altro aspetto di questa
impressione “io lo faccio” e quindi della sensazione di sé, è di
conoscere “io sono”, o piuttosto, conoscere, in quanto io sono; ci si
riferisce a volte al sentimento “io sono”, ma “io sono” non è proprio un
sentimento, ma piuttosto una conoscenza diretta senza contenuto né immagine. Quando dico “io sono” è un aspetto della sensazione di sé,
voglio dire che “io sono” rende possibile la sensazione di sé, ma non è in se
stessa una sensazione, e non può essere sperimentata in nessuna forma. Si può
paragonare alla situazione di uno specchio e dei suoi riflessi; uno specchio
rende possibile il riflesso dei raggi luminosi, ma non è in se stesso un
riflesso.
“Io sono” ha un ambasciatore. Quando si
dice “sono un uomo” o “sono una donna” è questo ambasciatore
che parla. In quanto emissario, “io sono” è il centro,
il punto focale. E’ quello che mantiene i pensieri, i sentimenti, le emozioni e
le sensazioni al loro posto, come la calamita che crea un campo
elettromagnetico attorno al quale si distribuisce la limatura di ferro. A
partire da questo campo, ho la sensazione di essere qualcosa.
In quanto ambasciatore, “io sono qualche cosa” incarna
l’autorità e il potere di “io sono” e proclama allora “io sono unico, l’Uno
assoluto” Chiamiamo questo emissario l’ego, quando lo vediamo in qualcun altro,
e semplicemente “me” quando si manifesta in noi.
Io ho il controllo implica che “io” sono il
centro dei pensieri, delle percezioni, dei sentimenti, delle sensazioni e delle
azioni, come dei ricordi. Siccome queste percezioni
sono percezioni del mondo e i sentimenti lo sono sul mondo, l’impressione “io
ho” il controllo implica che io sono il centro del mondo. In questo caso
il mondo non vuole dire il sole, la luna o le stelle, ma la totalità delle mie
attuali esperienze. Benché questo sia evidente, è però utile ribadire
che sembra che tutte le sensazioni vengano verso di me. La posizione centrale
dell’io in rapporto alle sensazioni è particolarmente evidente, se ci si
trova in mezzo al mare o in un campo; si sente allora che si è il centro di una
immensa distesa. Poiché le sensazione vengono verso di
me, ho la sensazione che io sono il centro, il centro del mondo. La
maggior parte delle persone associa l’io al corpo e si può capire
perché. I sentimenti e i pensieri sono tutti legati, in un modo o nell’altro,
al corpo. E’ vero anche per le sensazioni, benché la produzione di tutti gli
spettacoli dei suoni, degli odori ecc., siano
indipendenti dal corpo. In più, per fare qualcosa di più o meno grande
importanza, ho bisogno del corpo. Non sorprende quindi che associamo il
“qualcosa” che sono al corpo e sentiamo che io sono il corpo. Molta gente
associa anche l’io ad altre cose, come una bandiera, un’ideologia, degli
averi o un’altra persona. Si può anche dire così: come ci si sente autorizzati
a dire “io sono la bandiera”, “io sono la democrazia” o “io sono questa
persona”. In psicologia si direbbe che ci si identifica
con queste cose; e ci si può identificare quasi con tutto. Non usiamo evidentemente l’espressione “sono la
bandiera” ma il possessivo “mio”: la mia bandiera, il mio paese, la mia auto.
L’impressione di controllo cresce quando il
mondo scorre in armonia con l’io, senza alcuno sforzo da parte mia. Mircea Eliade diceva:” abbiamo la nostalgia del Paradiso”. Vogliamo esprimere
con questo il desiderio d’essere sempre e senza sforzo il Centro del Mondo, nel
cuore della Realtà; e con una scorciatoia rapida e in modo naturale trascendere
la condizione umana e ritrovare la condizione divina o, come direbbe un
cristiano, la condizione “prima della caduta”.
Il lavoro e l’immaginazione.
Io non sono certo il centro del
modo; di riflesso, realizzo che tutte le persone che incontro, amici, nemici,, estranei, credono anche loro di essere il centro del
mondo. I miei amici sono quelli che si adattano alla mia sensazione d’essere il
centro del mondo. Ma lo fanno, a condizione che mi adatti
anch’io al loro bisogno di essere il centro del mondo. Lo facciamo perché
abbiamo interessi comuni, le stesse identificazioni, come una bandiera,
un’ideologia, dei divertimenti, una squadra di calcio… O al contrario
manteniamo l’amicizia per una sorta di danza sociale, nella quale offriamo e
produciamo un centro. Lo facciamo a diversi gradi di autenticità,
che va da una relazione d’amore profondo, passando attraverso le “buone
maniere” e il rispetto, fino agli artifici e alle astuzie delle serate mondane.
D’altra parte i nostri nemici sono quelli che rifiutano la nostra
rivendicazione d’essere il centro dl mondo, sia attaccando, sia ignorando
deliberatamente questa rivendicazione. Gli estranei, loro, sono
nel limbo e fanno, per così dire, i figuranti nella commedia.
Questo implica, nei fatti, che è raro per
me trovarmi in Paradiso ed è raro vedere il mondo scorrere armoniosamente
attorno a me, senza alcuno sforzo da parte mia.
Abbiamo bisogno di fare degli sforzi; da
una parte forzare, persuadere, accarezzare nel senso del pelo, sedurre o
accettare gli altri perché accettino la nostra posizione culturale, e, d’altra
parte, accentuare la sensazione di avere il controllo. Il primo tipo di sforzo
si nasconde dietro ciò che possiamo chiamare lo sforzo
del lavoro, che è sempre fonte di stress; il secondo è lo sforzo
d’immaginazione. L’insuccesso del lavoro è il fallimento nel convincimento
degli altri ad accettare la nostra posizione centrale. Più falliamo in questa
via, più grande è il bisogno di accrescere la sensazione di avere il
controllo; quindi le nostre relazioni con il mondo e con gli altri diventano
sempre più immaginarie, e si dice allora che si è psicotici. Il paranoico è uno
contro il quale tutto il mondo e ogni
cosa che lo riguarda cospira contro di lui e tesse tele a suo danno. A causa
del nostro bisogno d’essere il centro, siamo tutti più o meno paranoici. Più
arriviamo, con il lavoro o con l’immaginazione, ad accrescere la sensazione
d’essere al centro del mondo, maggiore sarà la probabilità d’essere respinto
dal mondo e più il mondo ci sembrerà ostile. Questa abilità, reale o immaginaria,
viene dal fatto che non può esserci che un solo centro. Gli altri recitano
nella stessa mia commedia, ma sono loro il centro de mondo e non io. Così
naturalmente si risentiranno per la mia rivendicazione come io
mi risento per la loro.
Questa ostilità o mi darà la volontà di
lavorare più duramente, o mi ricaccerà di più nell’immaginazione.
(continua)